La Belt and Road Initiative (BRI) o nuova Via della Seta promossa da Pechino ha sicuramente portato alla ribalta dell’opinione pubblica il grande tema delle infrastrutture. Un argomento spesso inviso dagli elettori, perché i cantieri sono sempre vissuti come un fastidio (dimenticando spesso che al loro termine quello che resta non è polvere, ma un’infrastruttura il cui obiettivo è quello di semplificare, velocizzare e/o migliorare l’economia e, di conseguenza, il benessere sociale).
Dietro la BRI vi sono ovviamente molti fattori da valutare. Innanzitutto la volontà di Pechino di aprirsi nuove rotte commerciali, legando a sé le Nazioni attraversate/interessate dalle infrastrutture della BRI stessa. Per questo Stati Uniti ed Europa si sono sentite “economicamente minacciate” e sono corse ai ripari, anche se non con un disegno ben preciso e unitario. E non ci riferiamo solo agli accordi firmati dall’Italia, ma anche a quelli stetti dalla Polonia, dalla Gran Bretagna e, last but not least, dalla Spagna che, proprio recentemente, ha annunciato l’entrata del porto di Barcellona nella Silk Belt Road e cioè in uno dei quattro corridori ferroviari che connettono direttamente la Cina e l’Europa con la possibilità di inserirsi in una corona ferroviaria di 600 km comprendente l’Europa centro-settentrionale, percorribile in meno di dieci ore.
In ogni caso sia Stati Uniti che Europa hanno messo in pista alcune iniziative e stanziato nuovi fondi destinati a progetti infrastrutturali sia nella regione Indo-Pacifica che per la realizzazione dei corridoi infrastrutturali europei TEN. Per questi ultimi in particolare la Commissione europea prevede una crescita del PIL europeo dell’1,6% e la creazione di 797.000 nuovi posti di lavoro.
Di conseguenza molte banche regionali per lo sviluppo hanno inserito nel loro portafoglio numerosi investimenti infrastrutturali: stiamo parlando tra le altre della New Development Bank e dell’Asian Infrastructure Investment Bank. A livello globale si parla di un investimento in infrastrutture compreso tra il 4 e l’8% del PIL mondiale, mentre il G20 Global Infrastructure Outlook stima l’attuale gap infrastrutturale in 600 miliardi di dollari annui. Di questi 600 miliardi 11 servirebbero all’Italia per colmare il proprio gap infrastrutturale con quello pianificato dall’Europa.
Di conseguenza, per rispondere alla domanda del titolo, le infrastrutture contano tantissimo, perché concorrono a creare equilibri commerciali ed economici, fanno acquisire potere a Nazioni che non ne avevano (o ne avevano poco) e, ovviamente, creano business e, conseguentemente, posti di lavoro.
Se c’è una cosa che manca in Italia è il denaro pubblico per le infrastrutture. Inoltre il nostro tessuto imprenditoriale è fatto di aziende medio-piccole. Come faranno le nostre aziende a non farsi scappare le potenziali opportunità che lo sviluppo infrastrutturale futuro sta prospettando? Secondo l’ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale l’unico modo è affrontare e fare proprio un nuovo modello di business basato sull’adozione di nuove tecnologie quali la raccolta e l’analisi dei dati, e l’intelligenza artificiale.
Molto interessante in tal senso l’articolo pubblicato da McKinsey “How analytics can drive smarter engineering and construction decisions” cui dedicheremo uno dei prossimi articoli qui su www.macchinecantieri.com
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